lunedì 6 maggio 2013

Dylan Mondegreen & Green Like July (Il cielo sotto Milano)


Io non ho mai capito che cosa voglia dire nella musica la definizione "indie". Poi magari succede anche che mi capita di usarla spesso, parlando e scrivendo ma, giuro, non l'ho mai capita.

In teoria si dice che una cosa è indie quando è di nicchia, quando sono in pochi ad ascoltarla e ad apprezzarla. Una sorta di vocabolo da ghetto, come quelle riserve indiane evocate in una possibile etimologia del termine stesso.

Però capita che chi la usa lo faccia in modo compiaciuto, come a dire che "le cose che ascoltiamo noi non le ascolta nessuno e per questo siamo più fighi degli altri". Tanto che, quando una band passa dai locali agli stadi (ogni tanto succede) è subito un fuggì fuggi da parte dei fan della prima ora, che giurano che "prima erano un'altra cosa".

Successe a fine anni '80 con i R.E.M. e con i Simple Minds e non nego di esserne stato protagonista io stesso, coprendo di insulti i Coldplay e i Muse, dopo avere apertamente apprezzato i loro dischi di debutto (direte che il livello si è abbassato parecchio però sì, forse un po' arrogante lo sono stato anch’io).

E allora mi viene un pensiero banale che però ultimamente mi fa sempre più compagnia: e se questo termine oggi non avesse più nessun significato? In tempi in cui nessuno compra più i dischi, vige l'ascolto distratto da youtube del video del momento e i pochi concerti frequentati sono quelli negli stadi, ha ancora senso definirsi indie? Voglio dire, se la musica sta morendo, forse varrebbe la pena riprendere a supportare la musica, andare per locali, comprare cd, senza perdersi dietro alle etichette (sì, anche quelle discografiche).

Dico questo perché settimana scorsa sono stato all'Ohibò di Milano, dove i ragazzi dell'associazione “Il cielo sotto Milano”, ne hanno organizzata un'altra delle loro. Questa gente è da supportare, lo dico seriamente: sono tutti appassionati di musica, collaborano con un po' di webzine del settore e hanno deciso di darsi da fare per portare gli artisti che amano, italiani e stranieri, a suonare da noi.

E si tratta per la maggior parte di artisti che potrebbero andare sotto l'etichetta "indie pop". Ma nel senso che fanno pop e che non se li caga nessuno. Questo perché quello che si chiama pop rock oggi non va più di moda, non certo perché loro hanno l'ambizione di rimanere sconosciuti. Dopotutto chi sputerebbe in faccia al successo? A tutti farebbe piacere riempire uno stadio, sbaglio?

I Green Like July, ad ogni modo, di pop non hanno nulla. Si ispirano piuttosto ad un certo tipo di folk americano a cavallo tra i '60 e i '70, tra i loro miti musicali ci sono gente come The Band, Bob Dylan, Elliott Smith, George Harrison ma anche quel genio di Marc Bolan, che infatti viene evocato nell’inedita “Borrowed Time”. Si presentano dicendo di non c'entrare nulla con l'Italia: è senza dubbio vero ed è anche giusto che sia così. Dopotutto il sound “italiano” non esiste e non deve esistere: ognuno ascolta ciò che vuole e la musica che fa dovrebbe tener conto di queste influenze.

Hanno due dischi all'attivo. Il secondo, "Four legged fortune" lo hanno registrato in Nebraska ed è decisamente un capolavoro. Lo presentano dicendo che "costa 10 euro trattabili", aggiungendo che "Spotify è affascinante ma tenere in mano un cd è un'altra cosa". Non si può dar loro torto. Suonano una quarantina di minuti e presentano parecchi pezzi nuovi, visto che a settembre uscirà il loro terzo lavoro. Sarà il mood un po' crepuscolare della venue o il cantato soffuso e delicato di Andrea, fatto sta che tutto risulta molto più sixties di quanto fossi stato abituato a sentire. Poco male, da quanto ho ascoltato, il nuovo disco non deluderà nessuno.

Chiusura simpatica col cantante e chitarrista Andrea Poggio che dice che “questo è l’ultimo pezzo, in teoria” e poi rimane da solo sul palco, ironizzando su questa giusta mania delle band di concedere bis. Si chiude con una bellissima versione di “The sky is the key”, unico estratto dal primo album, “May this winter freeze my heart”. Un gran bel pezzo, peccato solo che il disco in questione sia ormai introvabile. Difficile trovare oggi una band che guardi al passato e suoni fresca invece che nostalgica. Da avere senza se e senza ma.

E arriviamo a Dylan Mondegreen. In realtà si chiama Borge Sildnes, è norvegese e ha scelto un nome che tira in ballo le categorie della linguistica per indicare quei testi di Dylan che non sono stati propriamente compresi. Esperienza autobiografica? Può darsi. D'altronde chi non ha mai sudato sopra  una "Visions of Johanna" in compagnia di un dizionario d'inglese, non può capire...

Sale sul palco dopo la mezzanotte, dopo che per tutto il set precedente è stato in fondo alla sala a sorseggiare una birra. Da solo. Difficile che qualcuno lo abbia riconosciuto. Si scusa coi presenti dicendo che è un po' tardi rispetto agli orari in cui si esibisce di solito e che quindi per prima cosa cercherà di svegliarsi.
È arrivato da solo, senza portarsi dietro neppure una chitarra. Da quella che prende in prestito si rompe una corda al secondo pezzo ed è obbligato a farsene dare un'altra. Già così lo amiamo tutti. Simile spontaneità è rara oggigiorno sui palchi.

La sua musica è un pop vellutato, dolce e nostalgico, che su disco è puntellato da archi, glockenspiel e contrappunti di voci femminili. Tutte cose che stasera non ci saranno. Sildnes, gira da solo, probabilmente per risparmiare sui costi. D'altronde ha registrato tre dischi, ma non si può proprio dire che ci abbia fatto sopra i soldi. Suona per hobby, esattamente come molti altri artisti dello stesso circuito.
Lo show privilegia il materiale più recente ("Dylan Mondegreen", il suo ultimo lavoro, è uscito alla fine dello scorso anno) ma non disdegna qualche piccola incursione nel passato, soprattutto per soddisfare un paio di richieste ricevute poco prima.

I pezzi rendono bene anche in una versione così scarna. Certo, non ha il carisma di Bruce Springsteen, che imbraccia una chitarra acustica e zittisce un'arena. Però se la cava. Anche perché, bisogna dirlo, i suoi pezzi sono piccoli gioielli di bellezza da cui è difficile non farsi incantare.

Spontaneità e sincerità anche sul finale: dichiara senza mezzi termini che la sua voce sta cedendo (non che sia stata al meglio per tutta la sera), che il giorno dopo dovrà suonare ancora, e che quindi quello sarà l'ultimo pezzo. E come è giusto che sia, concede "Girl in grass", che è stato anche il suo primo successo. La interrompe e la ricomincia tre volte, perché proprio non se la ricorda più e poi la chitarra non è sua e qualche difficoltà ce l'ha.

Ma gli vogliamo tutti tanto bene, forse anche proprio per questo. Se ne va tra gli applausi e lo ritrovo pochi minuti dopo appoggiato al bancone del bar con una birra in mano. Ancora una volta da solo. Accoglie i miei complimenti con un sorriso timido e riprende a bere senza troppe cerimonie.

Se un musicista deve prima di tutto condividere se stesso, quello di stasera è stato un gran concerto.
Indie o non indie, i ragazzi de "il cielo sotto Milano" vanno supportati. Se poi qualche loro artista dovesse fare il grande salto, proverò a non fare lo spocchioso, giuro.

Luca Franceschini

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