martedì 19 novembre 2013

La fredda lama di Goemon - Omaggio Lynchiano

Una parodia si costruisce prendendo e deformando i caratteri tipici di un’opera. Quindi nella parodia si possono riscontrare i tratti caratterizzanti dell’originale. Per queste ragioni, partendo da “David Lynch’s a Goofy movie”, possiamo risalire a quella che è una certa fisionomia del cinema lynchiano. L’autore di questa curiosa (quanto esemplificativa) parodia ha accentuato difatti caratteristiche che sono veri e propri status symbols del visionario regista americano. Luci che irradiano i volti, cornette telefoniche e inquietanti conversazioni, fumo che pervade e pressoché cancella un ambiente, corse in macchina, bordoni musicali tensivi, evanescenti blur a sublimare le immagini, uso di rumori a distorcere la percezione di quiete e fastidio…


 Prendiamo come esempio una pellicola sola per passare in rassegna tutti questi simboli; “Mulholland Drive”. Al suo interno troviamo tutti i trademark sopracitati. Superati i titoli di testa (la sequenza dello Jitterbug che altro non è che la chiave di lettura da cogliere per riuscire a districare la matassa narrativa) si ha il primo volto irradiato da luce (quello di Naomi Watts) in trasparenza. Successivamente il primo blur su quello che si scoprirà essere un letto sfatto. Ecco poi comparire la corsa in macchina e un consequenziale incidente. Il fumo della collisione a cancellare tutto il quadro. Poco dopo, il secondo volto irradiato (quello di Laura Harring) ancora sconvolto dall’impatto precedente, reso freddo e alterato nella sua espressione dall’intenso fascio di luce dei fari di un’autovettura. Rischiarata è anche la segnaletica stradale che demarca Mulholland Dr. Il flusso di immagini continua fino ad arrivare a un inquietante giro di chiamate.

Mezze frasi e cornette illuminate. Scorrendo ancora il film ritroviamo il fumo a eliminare l’intero quadro visivo. Una pistola deflagra un colpo e la stanza viene inverosimilmente saturata di fumo. Si susseguono anche altri blur, come ad esempio quello con cui ha inizio la scena all’interno del party in casa del regista. Una lenta messa a fuoco che sembra emblema di quella mentale cui è costretto lo spettatore nel rendere più nitido l’intreccio. E per tutto il percorso del film ovviamente le suggestioni sonore del Maestro Angelo Badalamenti acuiscono il contenuto sensoriale di ciò che si osserva. Ma all’interno del film c’è un luogo che è per antonomasia il contenitore di molti di questi tratti. Il Club Silencio (che, non a caso, rappresenta il cardine della fabula narrativa). Fuori fuoco, fumo a rendere indiscernibile il piano, luce accecante a deformare un viso, apposizioni sonore… tutto ciò perché il significato delle immagini trascende da esse stesse. I lineamenti non possono contenere il senso delle figure. È tutto sublimato. “È tutto un’illusione”.
Silencio.

Mattia Argieri

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