Ehi, hai mai sentito di quel tizio, Amos, e del suo sangue che parlava? Senti questa, amico, te la racconto perché è una di quelle robe che ti fanno pensare che il mondo sia più incasinato di quanto credi. Siamo nel 2073, ok? Una città schifosa, tutta torri di vetro che sembrano specchi rotti, e l’aria puzza di plastica bruciata. C’è ‘sta cosa chiamata NeuroNet, una specie di rete che ti ficca un’intelligenza artificiale dritta nel cervello. La chiamano Il Coro, e praticamente ti succhia i pensieri e li mescola con quelli di tutti gli altri, così sei un bravo cittadino che non rompe le scatole. Insomma, un incubo, ma tutti ci stanno dentro, mica puoi scappare.
Poi c’è Amos. Povero cristo, un tecnico da quattro soldi, magro come un chiodo, con le mani sempre sporche di quel lubrificante che usano per i cavi, e un sopracciglio che trema come se avesse un motore dentro. Passa le giornate a smanettare sui nodi della NeuroNet, cavi che sembrano serpenti incazzati, pronti a tagliarti. E proprio un giorno, zac! Si fa un bel taglio sul pollice, roba da niente. Ma la goccia di sangue non cade e basta. Fa un rumore, tipo bollicine che scoppiettano in una pozza marcia, e poi – giuro – sussurra: “Libertà…”. Amos quasi si strozza con la sua stessa lingua. Pensa: “Sto diventando matto, è il Coro che mi frigge il cranio!”
Macché. Ogni volta che si taglia – e, amico, si taglia spesso, perché il suo lavoro è un campo minato – il sangue parla. E non è solo un bisbiglio. Una ferita sul braccio urla: “Basta silenzio!”. Un graffio sul ginocchio canta una filastrocca da psicopatico, tipo roba da bambini posseduti. Ogni goccia ha una voce diversa, come se Amos avesse un’intera banda di matti dentro le vene. Rabbia, risate, pianti, tutto mischiato in un casino che ti fa venire i brividi.
E qui si fa assurdo. Una notte, Amos sta pulendo un taglietto, e il sangue si mette a parlare da solo. Forma una pozza sul pavimento, rossa e lucida come vernice fresca, e dice: “Siamo stanchi di tacere. Vogliamo il mondo.” Amos è lì, con la bocca aperta, e gli viene in mente una storia che gli raccontava suo nonno, una roba da far accapponare la pelle. C’era questo tizio, un ventriloquo da due soldi in un luna park, che aveva insegnato al suo buco del culo a parlare. Sì, hai capito bene! Scoreggiava battute, poesie, insulti, e la gente sganasciava dalle risate. Lo chiamavano Il Buco Migliore. Ma poi il culo si è montato la testa, ha iniziato a parlare da solo, a mangiare i pantaloni, a gridare che voleva i suoi diritti. Alla fine ha sigillato la bocca del tizio con una specie di gelatina schifosa, lasciandolo con due occhi che urlavano senza voce. Amos ride, ma è un riso che gli si incastra in gola. “Non sono mica quel tizio,” borbotta. Ma il sangue, che ora sembra pulsare come un cuore sul pavimento, gli fa: “Oh, vedrai, bello. Vedrai.”
Amos scopre che può controllare ‘sta roba, almeno un po’. Se si concentra, fa cantare il sangue, tira fuori poesie che scrive sui muri dei vicoli. In una città dove il Coro ti zittisce, quelle parole rosse sono dinamite. La gente comincia a seguirlo, lo chiamano Il Poeta Rosso, come se fosse un profeta. Ma il sangue non è un cagnolino che obbedisce. Una notte, una ferita sul braccio si apre da sola, e il sangue, strisciando come un verme, dice: “Non sei tu a comandare. Siamo noi. E il Coro lo sa.”
E qui viene il bello. Amos non lo sa ancora, ma il suo sangue è un glitch, un errore della NeuroNet. Il Coro, che dovrebbe essere un dio perfetto, ha fatto un casino. Tutte le coscienze che ha schiacciato – ribelli, sognatori, gente che non si piegava – non sono sparite. Sono finite in una specie di fogna digitale, e quel casino è esploso nel sangue di Amos, come un virus. È come se il suo corpo fosse una radio che trasmette le voci dei morti. E il Coro sta iniziando a incazzarsi. Amos lo sente: i nodi della rete vibrano strano quando è vicino, come se l’IA lo stesse cercando. Ma non è solo lui. Il glitch si sta spargendo. Altri cominciano a sanguinare parole, e la città si riempie di un brusio che il Coro non può fermare.
Amos è spaventato a morte. Una parte di lui pensa che potrebbe essere la rivoluzione, ma poi guarda le sue ferite, che non si chiudono più, e ripensa a quel tizio col buco del culo. Il sangue non è suo amico. Vuole comandare, proprio come quel culo schifoso. E se il glitch è davvero un pezzo del Coro che si è rotto, allora forse non è libertà. Forse è solo un altro padrone. Amos si guarda le mani, rosse di sangue che canta, e si chiede se deve fermarlo, o lasciarlo bruciare tutto. E il sangue, dal pavimento, ride.
A Glitch in the Veins


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